イタリア語 上級者向け 大報恩寺での経験

Nel Dicembre scorso sono stata a Kyoto per l’ennesima volta. Per l’occasione ho deciso di visitare un tempio chiamato Daihoonji, un sito che seppur di innegabile valore storico, non è ancora per niente conosciuto e -per fortuna- non rientra nella località più battuta dai turisti.
Questa perla di legno, sopravvissuta miracolosamente alle lotte intestine Onin-no-ran (periodo Muromachi) e agli innumerevoli incendi che hanno lacerato l’antica capitale giapponese, è l’edificio ligneo nella sua forma originale più antico rimanente. Il tempio infatti è stato qualificato come Tesoro Nazionale ma stranamente, non ha ottenuto la fama dei suoi concittadini Kyomizu e Sanjusangendo.
Tornando al mio viaggio, una volta scesa dall’autobus che mi portò fuori dal centro storico, sentii già che doveva trattarsi di un luogo particolare, quasi sospeso in una realtà atemporale. Piccole stradine coperte dagli inchini di antiche casette in legno si aggrovigliavano e poi diramavano passo dopo passo, al ritmo dei miei piedi, come un labirinto da superare prima di raggiungere il castello. Casette di legno avvinghiate le une alle altre da un incrocio di fili e ferraglie mi facevano traballare il petto al solo pensiero di un incendio: gli abitanti non avrebbero via di scampo. Vecchini curiosi sporgevano cauti il volto fuori dalla finestra sorreggendosi al bastone, ricordandomi il collo di una tartaruga, e mi fissavano: un po’ sospettosi del mio avanzare incerto, un po’ curiosi del perché una straniera fosse li.
Arrivata al tempio le mie previsioni si rivelano azzeccate: fui subito avvolta da un grande entusiasmo e spirito d’avventura che furono però altrettanto velocemente frenati da tre semplici parole del bonzo di turno al casello: “togliere-le-scarpe”.
Sì. senza ciabatte e sì, a dicembre. A Kyoto. Chi ci è stato capirà quanto freddo possa fare stare a piedi nudi su un corridoio di legno in quelle condizioni.
In ogni caso, ero ancora euforica.

Sui pilastri della sala principale, Hon-do, si potevano riconoscere benissimo i segni delle spade che durante le battaglie Onin vi erano state conficcate con brutalità. La mia immaginazione correva indomabile come un cane da caccia dietro un fagiano, arrancava, saltava fossi, si rincorreva la coda. Mi lampò in mente la figura di un giovane bonzo nelle sue vesti nere e dorate che con tutte le sue forze tentava di fermare i rozzi guerrieri irruenti nell’Hon-do. A mani nude fermava l’alabarda del samurai, ormai conficcata del pilastro dientro di lui e con il cuore combattuto tirando un urlo infantile lo calciava combattuto da rimpianti.
Tornata in me, nel periodo Heisei, mi misii ad analizzare quella colonna portante alla quale il tempo e le tarme, avevano donato un’imparagonabile naturalezza. Che fortuna trovarmi lì! Fu in quel momento che mi ricordai di essere venuta dall’altra parte del mondo..